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ANDREA BACCHETTI  Talento pianistico
 

PATRIZIASPORA

 

E' complesso e faticoso essere oggi un pianista affermato, apprezzato e ricercato. Lo sa bene Andrea Bacchetti, grande interprete di Bach, eccentrico e profondo nella sostanza, che con rigore e vivacità intellettuale nelle sue interpretazioni rivela la

 

sta giapponese Record Gejiutsu per il mese di gennaio, i premi della Radio Svizzera di lingua tedesca come disco della settimana a dicembre, mentre Pianiste, bimestrale francese, per novembre e dicembre lo ha segnalato fra i primi cinque dischi del mese. Ma non solo, Andrea Bacchetti dal 1998 è ospite fisso alle Serate Musicali di Milano, dove ha in corso di esecuzione un programma pluriennale con l'integrale dell'opera per tastiera di Bach, mentre per il DVD Arthaus delle sue Variazioni Goldberg di Bach, ha ottenuto le "5 stelle" di BBC Music Magazine, la raccomandazione di Gramophone, International Record Review, il premio di Classic Today France, American Record Guide, Fanfare, Japan Record Gejiutsu, Piano News, International Piano. Andrea Bacchetti, che considera la musica "un percepire con piacere i suoni", in una chiacchierata ha raccontato di sé, della sua formazione, dei suoi successi, delle sue aspettative e dei suoi progetti.

 

L'ultima raccolta delle 8 Sonate per tastiera di Baldassarre Galuppi è a tutti gli effetti un album di grande ricerca storica oltre che musicale, capace di offrire una notevole molteplicità di pezzi che variano per caratteri e tonalità, offrendo così all'ascoltatore molte sorprese. Come è maturato in lei il desiderio di realizzare questo lavoro?

«Galuppi fu un grande compositore, cosmopolita aperto a ogni declinazione della sua arte e attento alla cultura europea del tempo che lui visse da protagonista. Onorato dai sovrani di mezzo mondo e amato dal pubblico produsse opere di notevole livello com positivo, ricche di virtuosismi strumen-

 

 
 

 

 

 

 

 

 

convinzione tutta leibniziana che la musica possegga una salda struttura matematica, sulla quale lavorano inevitabilmente sensibilità, interpreta-zione ed emozione.

A Bacchetti, che esordì a soli 11 anni, il 2008 ha regalato grandi soddisfazio-ni, nonostante sia ancora lunga la strada che lo porterà a raggiungere il grande pubblico. Questo pianista d'eccellenza nato a Genova nel 1977, che nella sua giovane ma già intensa carriera ha incontrato e raccolto i consigli di musicisti come Karajan, Magaloff, Baumgarten, Berio e Horszowski, con la grande agilità di chi manipola brillantemente la materia sonora, grazie a un ricercato perfezio-nismo interpretativo che ne ha saputo fare anche uno squisito studioso e ricercatore sui testi e i manoscritti, con la recente raccolta delle sonate per tastiera di Baldassarre Galuppi ha offerto un'opera virtuosa, completa e di grande pregio.

Con l'integrale delle 8 Sonate di Galup-pi ha raccolto giudizi artistici elevati dalla critica internazionale come la rivi-
 

 

 

stali e di elementi tipici del preclassici-smo o quasi classicismo dei tempi lenti che richiede una certa introspezione, costituendo così un grande elemento di indagine e novità per l'epoca. L'ascolto delle pagine per tastiera di Galuppi riserva quindi molte sorprese: la più evidente e sensazionale riguarda la capacità di produrre melodie di grande dolcezza ma velate da un senso di melanconia in grado di trasformarsi inaspettatamente in turbamento dell'anima. I movimenti lenti, posti quasi immancabilmente in apertura di sonata, si apprezzano per la cantabilità ed è facile ritrovare similitudini con arie d'opera. Nei tempi rapidi invece domina un virtuosismo espressivo e mai smaccatamente esteriore, sostenuto da una maestria tecnica raffinata.

La scelta di queste otto composizioni, su dodici che ne avevamo selezionate, permette di ascoltare pagine di un certo sapore arcaico, in cui appare chiara l'esperienza scarlattiana e bachiana, facendoci giungere fino a partiture che lasciano intravedere il nascente fermento romantico».

 

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Nel 2006 ha inciso le Variazioni Goldberg confezionando un DVD video con documentario dove si esibisce in concerto e spiega le sue esperienze; la stessa confezione contiene inoltre un disco audio che ripropone un diverso concerto delle Goldberg, tenutosi un anno dopo a Savona. Si tratta di due esecuzioni diverse, che presentano una sostanziale differenza nei tempi e nel fraseggio, testimonian-do la sua continua ricerca, il met-tersi costantemente alla prova nei confronti di Bach che possiamo a ragione definire un punto fisso del suo orizzonte fin dall'inizio dell'at-tività. Come è nato questo interes-se per le Goldberg?

«Le ho suonate per la prima volta nel settembre del 2004, quindi cinque anni fa, ma da sempre hanno rappresentato un lavoro fondamentale della mia vita; ero attratto da un lato dalla sfida stru-mentale a cui l'esecutore è obbligato, dall'altro dalla complessità mnemonica richiesta, e soprattutto dal piacere "spirituale" che arreca l'interpretazione. L'aver già affrontato poi l'integrale delle Suite inglesi e francesi mi ha dato l'op-portunità di guardare alle Goldberg con un occhio di riguardo per quelle varia-zioni che sono danze, poche in realtà, convincendomi del fatto che mi trovavo davanti a un'opera essenzialmente strumentale, cioè di grande virtuosismo scritta nella tarda stagione bachiana, ossia molti anni dopo le altre raccolte di composizioni per tastiera.

Le Goldberg sono un cosmo fantasti-co, uno stimolo notevole per migliorare la tecnica perché hanno difficoltà supe-riori al resto della musica strumentale di Bach. Nel mio studio e nella speri-mentazione delle Goldberg ho diverse esecuzioni di riferimento, che ho ascol-tato e continuo a sentire senza però cercare di copiare. Il primo incontro fu la registrazione di Glenn Gould del 1955, che ho sempre ammirato per la straordinaria tecnica.

Poi nel 2001 la seconda versione di

 

 

 
Andreas Schiff che per me, almeno come impianto, poco si differenzia dal-la prima. La ascolto in concerto, è straordinaria per tutto: perfezione tim-brica - e senza pedale - oserei dire olimpica, con un principio di estetiz-zazione.

Altra esperienza è stata la conoscenza dell'ultima ver sione di Rosalyn Tureck, che ha preceduto l'inizio dei miei studi ed è forse quella che più mi ha  influen-zato: mi affascinano i tempi moderati, l'invenzione estemporanea degli abbel-limenti nei ritornelli, il misticismo unito a una stupenda freschezza giovanile».

 

Da bambino era già un virtuoso, e un interprete apprezzato che ha avuto la fortuna di incontrare e raccogliere i consigli di musicisti come Karajan, Magaloff, Baumgar-ten, e i due italiani Berio e Scala.

Cosa le hanno trasmesso a livello umano e professionale? Sente di dover qualche cosa a qualcuno per i risultati ottenuti?

«Sono tutte figure che hanno dato molto alla mia formazione e crescita come musicista, mi hanno insegnato disciplina, costanza, voglia e capacità di ricercare sempre la perfezione tecni-ca, mentre, dal punto di vista umano mi hanno lasciato una grande ricchez-

 

 

za nei rapporti, nel comunicare con la mente e con il cuore.

Karajan lo frequentai poco, lo vidi infatti solo due volte nel 1987 all'età di undici anni, nel periodo che trascorsi a Salisburgo per partecipare a un corso al Mozarteum. Lo ricordo come un signore austero, di grande lucidità e carisma. In quel primo incontro, in un italiano perfetto mi chiese di suonare, e così, cantando come ero solito fare mi esibii in un brano di Mozart. Fu proprio in quella occasione che impa-rai a non cantare più a voce aperta mentre si suona, continuando però a cantare dentro, nel mio intimo, perché il pianoforte resta comunque per me uno strumento romantico che quindi deve cantare.

Anche l'incontro con Berio avvenne a Salisburgo e fu per un caso del desti-no, mentre il Maestro aspettava l'esibi-zione di alcuni suoi allievi, ascoltò la mia esecuzione di Scarlatti e Proko-fiev:da quel giorno diventammo amici e gli incontri si prolungarono fino al 2003. Mi seguiva nell'esecuzione tecnica e mi aiutava a scegliere il repertorio, distinguendo fra autori maggiori e minori, fra chi ha lasciato un segno indelebile e chi ha detto o fatto ben poco perché non ha scalfito la storia della musica. Per lui, un conto era l'innovazione nello strumento e un altro era invece l'innovazione nella musica, in sostanza Berio non ha mai amato quegli autori che non hanno saputo rompere con il passato, come ad esempio Mendelssohn che annoverava fra i minori proprio perché nel suo cam-mino romantico non portava nessun tipo di rinnovamento. Secondo il suo punto di vista musicisti come Liszt e Paganini hanno saputo sviluppare le caratteristiche dello strumento in maniera geniale, ma non sono stati in grado di apportare cambiamenti degni di nota nella musica, mentre gli autori veramente grandi furono, Stravinskij, Bach, Beethoven, Mozart e Schubert. Insomma tutti quelli che hanno "rotto" con l'epoca in cui hanno vissuto».

 

   
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Quali sono invece per lei i grandi compositori e cosa rende grande un compositore?

«1 compositori veramente grandi sono quelli che riescono ad astrarsi comple-tamente dal loro tempo. J.S. Bach ne dà la più elevata dimostrazione nell'Arte della fuga. Nell'ultima fuga di quest'opera si coglie infatti con molta chiarezza la rinuncia ai modelli modu-latori da lui impiegati con successo qualche anno prima nelle Variazioni Goldberg e nel Clavicembalo ben tem-perato. Bach qui è più distaccato e meno definito, facendo quindi pensare direttamente a uno stile del Barocco primitivo o del tardo Rinascimento.

La grandezza di un compositore è data anche dall'universalità del messaggio che riesce a trasmettere. La musica di Bach - ad esempio - si può eseguire con tutti gli strumenti, l'arte della fuga risulta eccellente interpretata con la chitarra o con qualunque altro strumen-to perché non ha confini; differente è invece il discorso per Chopin che resta legato al solo pianoforte, mentre Paganini al violino».

 

Come sceglie i suoi repertori? Quanto si affida all'elemento pura-mente emozionale e quanto a quello razionale?

«Scelgo prima di tutto in base alla mu-sica che sento più adatta al mio modo di suonare, e anche in virtù di quello che mi chiedono. E poi è importante tener conto dell'evoluzione a cui tutti andiamo incontro e che non si può prevedere. Alcuni anni fa avevo esegui-to il IV di Rachmaninov, prima in Sicilia e poi in Spagna, ora mi sento cambia-to. Ma del resto, anche le stesse Variazioni Goldberg, suonate con i ritornelli o senza sono quasi due pezzi diversi: quando le devo eseguire senza, ad esempio, tre variazioni le faccio più

 veloci perché nell'architettura priva di ripetizione stanno bene, mentre nell'al-tro modo no. Tra i compositori, predili-

 

 

go Mendelsshon perché esprime un virtuosismo di brillantezza e leggerez-

za e non di potenza come Liszt e Brahms, e siccome il mio è un piani-smo che guarda molto alla forma, alla ragione e alla struttura, i compositori per eccellenza sono ovviamente Beethoven, Bach, e Berio che io consi-dero il Bach del Novecento.

Nel caso di Galuppi la scelta è stata dettata più che da un elemento razio-nale o emozionale, che comunque van-no legati assieme, da un fattore di mar-keting; secondo noi il mercato aveva bisogno di conoscere questa novità».

 

 

In tutti questi anni di studio e esibi-zioni quale ideale sonoro si è fatto per il pianoforte?

«Il mio ideale è un modo totalmente pianistico che sfrutta appunto le risor-se timbriche complete del pianoforte -quindi tutte le sfumature che paragono ai colori - e ovviamente il pedale anche se in piccole dosi.  Non è per niente

 

 

cembalistico, è invece un barocco che cerca di essere ricreato per lo stru-mento moderno su cui è suonato, e non su quello antico».

 

La musica è sempre stata condi-zionata da fattori storici, politici, sociali, e in alcuni casi anche reli-giosi. Oggi si va verso un'omologa-zione generale. Le sembra che si possa parlare di globalizzazione anche per la musica?

«Per rendersi conto e verificare questa ipotesi bisognerebbe vivere inseriti nel mondo più di quanto faccia io. Non credo però sia un problema di globa-lizzazione. Più che altro, quello che noto soprattutto sulla mia pelle già da anni è il fatto che la musica classica in

Italia ha poco seguito, non ha la dovuta attenzione che meriterebbe. La lirica ha una maggiore considerazione ma la classica è ancora molto indietro, nell'ombra. Noi aspettiamo da anni il momento in cui la grande musica potrà essere conosciuta e goduta da tutti, proprio come avviene in Francia, Germania e Inghilterra.

Comunque non credo che la classica avverta la globalizzazione, questo problema interessa forse più il pop, la musica leggera e commerciale.

Nella classica che è ancora di nicchia, quando è presente una certa qualità emerge sempre. Più che altro c'è da lamentare la scarsissima valorizzazio-ne del prodotto locale, mentre nelle tre nazioni citate in precedenza (Germa-nia, Francia e Inghilterra) la program-mazione è fatta al 50% dal prodotto lo-cale; in Italia siamo solo al 10%, costi-tuendo così un danno notevole per noi che siamo spesso considerati scarsi sul mercato mondiale, perché colpevoli di non avere una tradizione forte e non avere scuole di musica strumentale di eccellenza. Questo disagio a cui tutti siamo sottoposti andrebbe denunciato più apertamente, con più forza e più coinvolgimento».

 

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Cosa chiede il mondo del concerti-smo?

«Siamo nell'epoca dell'apparire, dell'im-magine e dell'avere tutto presto e subi-to, e il mondo del concertismo credo richieda innanzitutto un'azione di mar-keting potente e mostruosa, e poi in-dubbiamente un certo livello anche se lo star system di oggi non è più quello di cinquanta anni fa. Fra i più grandi interpreti attualmente è possibile tro-vare anche elementi non eccellenti, mentre fra le figure emerse decadi fa questo è molto difficile, diciamo impos-sibile; nel passato non c'erano figure modeste o mediocri, erano tutti dei grandi, mentre oggi dietro a molti musi-cisti c'è spesso solo un'operazione di marketing fatta di pubblicità, libri, co-pertine e apparizioni ai vari talk show.

Per quanto riguarda invece le richieste specifiche nelle varie esecuzioni, di-pende, perché ogni interprete è un po' catalogato per quello che ritengono suoni meglio, quindi c'è quello consi-derato specialista nel repertorio con-

 

scelga invece l'interprete che gli pare più appropriato.

Diciamo che io mi sento adatto per Bach e naturalmente per Berio».

 

Lei, interprete accurato, attento e capace di ricreare con la propria personalità ciò che esiste solamen-te nelle pieghe della partitura, sapendo arricchire l'interpretazio-ne con la creatività dell'improvvi-sazione, ha mai scritto partiture o composto brani musicali?

«Non ho ancora composto nulla, ho studiato composizione fino agli anni Novanta e mi piaceva molto, ma non ho mai scritto niente autonomamente per professione, mi diletto a realizzare piccole composizioni solo per me, preferisco piuttosto trascrivere alcuni standard jazz rivedendoli un po' a modo mio.

Mi affascina l'improvvisazione più che la composizione, sono appassionato di jazz anche se questo genere è l'oppo-sto della classica: il jazzista ha gli accordi, una scaletta base armonica da cui costruisce tutto il resto e lo inventa, improvvisa estemporaneamen-te, invece il "classico" ha forma e melodia già scritte, dettate e stabilite dal compositore. L'interprete deve quindi ricrearla dando una sua impron-ta personale senza ovviamente alterare alcuni canoni uguali per tutti: diciamo che suona un qualche cosa che è già stabilito. Certo nell'improvvisazione si esalta quell'aspetto delle creatività come impulso immediato e in parte a-

 

logico, e l'interpretazione-esecuzione èsempre un atto anche creativo.

Inoltre l'interprete rende evidente nel suo stesso operare quel contatto a livello quasi fisico, istintuale con l'opera musicale; l'onda della creazione, i suoi ritmi interiori, le sue pause, vengono accolti dall'interprete che li vive fisica-mente in prima persona e li rende reali, udibili e palpabili attraverso l'esercizio della sua arte, che è un operazione sia mentale che fisica.

Questa vita segreta dell'opera musica-le, questo suo vibrare nel tempo non può essere scritto nella partitura, che ha solo la funzione di schema, di pro-memoria per suggerire all'interprete la via per penetrare e cogliere meglio il cuore dell'opera musicale, difficilmente traducibile nei segni grafici anche dalla notazione perfetta».

 
 

Ha un desiderio da realizzare che potremo chiamare sogno nel cassetto?

«Altro che uno, ne ho anche cento, ma come tutti i desideri preferisco non svelarli».

 
 

(P.S.)

temporaneo, o per altri generi. Può succedere talvolta che il tale compo-sitore esegua per la prima volta un brano solo per mettersi alla prova o

 

 

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