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Il Porto Rotondo festival si conclude con i grandi della musica classica, rievocati attraverso il grande maestro Uto Ughi. Il concerto è in programma giovedì 5 agosto all'anfiteatro Mario Ceroli.

Il suo violino è un'istituzione nella musica italiana, e della musica italiana nel mondo. Per questo motivo quando racconta di sé, Uto Ughi racconta anche il percorso della musica fino a oggi. E se si parla di crisi, di pochi spettatori, di musica classica lontana dai giovani, risponde che ora più che mai è necessario «custodire il fuoco della tradizione».

In concerto insieme al pianista Andrea Bacchetti, cosa dobbiamo aspettarci?

«Eseguirò brani classici, romantici e moderni. Per esempio "La Primavera" di Beethoven, poi altri pezzi che mi piace però annunciare a voce direttamente al pubblico. Preferisco che non si abbia prima un programma. Bacchetti è un bravo pianista, ha registrato alcune cose belle su Bach, tra i giovani è uno dei migliori».

Domanda essenziale: per lei, adesso, cosa significa "musica"?

«La musica è una forma di espressione diretta, che non ha bisogno di traduzione e linguaggio. Beethoven, Mozart, vengono recepiti in tutti i paesi del mondo con la stessa intensità. Non è come la letteratura, che al contrario ha bisogno di traduzioni per essere capita. La musica va al di là di tutte le barriere comprese quelle ideologiche e politiche».

Una delle poche arti a riuscirci...

«Sì, riesce a unire la gente. Sto leggendo un libro di Daniel Barenboim, grande direttore d'orchestra e pianista ebreo; ha creato un'orchestra formata da palestinesi e israeliani, che in nome della musica si siedono davanti a un leggio e condividono la stessa bellezza».

Quando parla dei suoi inizi ad appena 5-6 anni, sfugge dall'appellativo di "enfant prodige". Sostiene, lei, che dovrebbe essere la normalità approcciarsi alla musica in età così precoce, è così?

«Dovrebbe far parte della nostra cultura. Abbiamo avuto grandi geni, nei secoli l'Italia è stato il paese della musica, ora viene trascurata, non insegnata nelle scuole. L'educazione verso la musica dovrebbe essere normalità. I giovani non possono amare quel che non conoscono, abbiamo una miniera ricchissima di capolavori ancora da scoprire che potrebbe dare gioia a milioni di giovani e giovanissimi e invece...».

Crede sia un problema solo italiano o generalizzato?

«Soprattutto italiano. Ci sono paesi come il Giappone dove l'educazione musicale presso i giovani è importantissima, ci sono metodi di insegnamento già dalla prima infanzia. In Italia ci sono leggi ridicole che non permettono di entrare nei conservatori fino ai 18 anni, parificandoli alle università. Leggi fatte da gente che non capisce nulla di musica e non ha idea dell'importanza della sua istruzione. In Venezuela, il ministro della Cultura Abreu ha portato la musica nei quartieri più poveri e per i giovani ha rappresentato una specie di riscatto sociale. Suonando, hanno trovato una loro dignità e sono nate tantissime orchestre giovanili».

Ma dopo tanti anni di carriera, e con in mezzo il lungo stop dettato dal covid, com'è tornare su un palco e cosa è cambiato nel suo approccio di fronte al pubblico?

«L'approccio musicale rimane lo stesso, è un tentativo di trasmettere. Noi interpreti siamo dei comunicatori e ci auguriamo di condividere la bellezza dell'arte col pubblico. Anche prima del covid c'era sempre meno gente che andava ai concerti, ora la situazione è anche peggiore. Ma il fuoco della tradizione non va perduto. La tradizione non è culto delle ceneri, diceva Mahler, ma custodia del fuoco».