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CLASSIC VOICE CD


Training D'AUTORE


Bach scriveva di suo pugno le composizioni per la formazione degli allievi e dei figli. Piccoli gioielli pensati in funzione dell'arte.
Una stagione d'oro della didattica musicale finita con il "mercato" dei metodi e le necessità dei professionisti dell'insegnamento.
Chopin e Liszt compresi


di GUIDO SALVETTI

La più famosa raccolta di Studi s'intitola Gra­dus ad Parnassum: il cammino verso il monte dell'Arte. Lo si immagina salita, e faticosis­simo; e soprattutto lungo, se si considera la distanza tra i primi gradini dedicati ai principianti e gli ultimi, da dove spiove la luce dei grandi "virtuo­si" di ieri e di oggi. Convinti di poter scalare questa specie di scala di Giacobbe, milioni di aspiranti-mu­sicisti, negli ultimi tre secoli, hanno affollato le scuo­le, le accademie, i conservatori e soprattutto le case private dei Maestri. Una percentuale enorme, che nessuno saprà mai calcolare, è caduta sui primi gradini, e ha lasciato perdere. Una percentuale minore, ma comunque calcola bile in centinaia di migliaia, ha assaporato ai diversi livelli la prima ebbrezza del monte; ma ha poi dovuto amaramente cambiare i propri piani. Solo una quantità infinitesima è arrivata in cima, e ne ha ricevuto e ne riceve giustamente la ricompensa del pubblico plauso. Messa così, questa scala parreb­be non molto diversa da quella di ogni scalata verso il successo. E in­vece essa si contraddistingue per l'enorme numero d'illusioni che accompagnano il passaggio da un gradino all'altro e per la tenacia con cui i malcapitati sono disposti a sacrifici che spesso nulla hanno a che fare con il risultato a cui tendono. Mi spiego. Il trai­ning di un calciatore consiste nel calciare il pallone; ma la formazione di un pianista è consistita e con­siste, in gran parte, nell'eseguire alla tastiera cose che non hanno quasi nulla a che fare con la Musica: meccanismi ripetitivi che sono gare, più che di resi­stenza, di pazienza.

Questo sistema appare un poco assurdo e alimenta il sospetto che serva non tanto a far raggiungere la meta al maggior numero possibile di partecipanti, quanto piuttosto a dare ai Maestri - ai Didatti - il numero più ampio possibile di clienti. Se a qualcuno l'affermazione apparisse troppo maliziosa, lo invite­rei a considerare che, senza questo stuolo di clienti illusi, Mozart e Beethoven sarebbero morti di fame; Parigi non avrebbe richiamato nell'Ottocento un nu­mero debordante di pianisti, tra cui Chopin e Liszt; i Conservatori italiani sarebbero al massimo due.

A tali considerazioni - realistiche, più che amare - ci induce la scelta del cd di questo mese: un Bach che potremmo definire "didattico", con brani composti con !'intento di far progredire nella musica lo stuolo davvero ingente dei figli e degli allievi. I due Quader­ni di Anna Magdalena Bach, la seconda moglie del Maestro e musicista ella stessa, sono un quadro fin commovente di un'era felice: all'aspirante musicista viene destinata subito, anche ai primissimi gradini, della "vera" musica, quasi ad invitarlo già subito a capire come è stata composta e soprattutto quale sia il suo stile, cioè la sua fisionomia particolare. Amo pensare che il piccolo Christian Bach abbia addirittu­ra potuto sbirciare su quel quaderno la composizione che veniva scritta per lui, mentre veniva scritta. E che quindi nel momento dello studio sulla tastiera, l'esecutore si sentisse lui stesso un poco "composito­re", o comunque compromesso con lui. Il pur neces­sario esercizio per sciogliere le dita (vedi anche tanti Preludi del Clavicembalo ben temperato) diventava in quella situazione uno dei tanti modi con cui creare immagini sonore e stati d'animo ad ognuna correla­ti.

Composizione "d'arte" e composizione "didattica" stavano abbracciate. Insegnante e allievo erano acco­munati nello stesso servizio a "Frau Musika" (nostra Signora Musica, l'appellativo di Lutero posto a epi­grafe del bel libro di Alberto Basso). In questo spirito la famiglia Bach aveva una riuscita scolastica - se così possiamo dire - pressoché totale: ognuno secondo le sue attitudini. A nessuno interessava che l'apprendi­stato durasse 10 anni "normali" più 3 superiori, più 2 di perfezionamento, più 1, 2, 3 di master, e così all'infinito nella grande fiera delle illusioni e delle dispersioni di energia che sono diventati i nostri stu­di musicali. Va anche notato che molta musica di Johann Seba­stian Bach si poneva esplicitamente il compito for­mativo, dell'esecutore e del musicista insieme (se non anche del compositore). Intendo dire che non si trat­tava soltanto di fornire alla massa dei figli e degli al­lievi pezzi di piccola e media difficoltà, ma di dare ad ognuna delle composizioni il compito di far superare una difficoltà di dita e, insieme, di pensiero musica­le. Basterebbero anche soltanto le Invenzioni a due voci a convincerci dell'intenzione di mettere al cen­tro, volta per volta, un problema tecnico e, assieme, un particolare stile. La "didattica", a questi livelli, fa parte integrante della vocazione di comunicazione insita in tutti i linguaggi, e altissi­ma nel linguaggio artistico e musicale. Una piccola Suite e l'Arte della Fuga appartengono così a un unico orizzonte, la cui vastità dà le vertigini, a ben capirlo.

Il caso di Bach rimase, per quello che ne sappiamo, un caso isolato. Nei secoli che seguirono si arrivò a sempre più marcate separazioni tra le diverse funzioni: tra compo­sitore ed esecutore, tra dilettante e professionista, tra didatta e con­certista, tra teorico e pratico. Da un lato, quindi, tra Settecento e Otto­cento si innalzò un'autentica mon­tagna di Metodi, Studi, Esercizi, scritti da celebri virtuosi carichi di lezioni private, le cui composizioni - già marginalmente apprezzate al loro tempo - sono oggi totalmente scomparse dai nostri orizzonti. D'altro lato gli Studi di Schumann, Chopin e di Liszt, o i Capricci di Paganini, mostrano come sia enor­me lo strappo con !'idea di una di­dattica progressiva e formativa. Occorre essere già arrivati al "Par­naso" per eseguire quei brani. Il rapporto con gli studi di Czerny, ad esempio, consiste quasi soltan­to con l'attribuzione ad ogni pezzo di una particolare tecnica esecuti­va. Forse soltanto nel Novecento, con una risorgente idea di artigia­nato, trova ancora spazio presso i grandi musicisti l'idea di una for­mazione progressiva: ma forse sol­tanto Bela Bartok e Gyorgy Kurtag; o Paul Hindemith, ma con Debus­sy, e fors'anche con le Sequenze di Berio, la "forma" dello Studio prescinde completamente dal l'uso didattico dello stesso.

Rimane aperta, dunque, la que­stione attuale di quale didattica per quale formazione. Credo di non sbagliare nel notare che la separazione tra didattica e "arte" è oggi ai suoi massimi storici. Appartengo alla generazione a cui hanno ripetuto mille volte la fa­mosa sentenza "rem tene, verba sequentur" (possiedi l'argomento e saprai parlarne).

È paradossale che in un'epoca di anafabetismo di massa, che non ri­sparmia certamente il sapere musicale, fioriscano gli insegnamenti di didattica fuori e dentro i Con­servatori: si sta davvero afferman­do l'idea che si può insegnare ad insegnare senza sapere bene che cosa e a chi.







intervista



Gioielli D'ITALIA

Talento, passione, studio. E ostinazione.
Così Andrea Bacchetti emerge all'interno di una nuova e valorosa generazione di giovani pianisti.
Non sempre premiata dalle istituzioni concertistiche italiane.


di ANDREA ESTERO

«Sono pagine di una tale bellezza che trascen­dono la loro destinazione originaria, anche perché il repertorio didattico (termine che prima forse non si usava nemmeno) non è di valore artistico inferiore. Per Bach è un mezzo per far comprendere l'arte. Questi brani scelti sono piccoli capo­lavori, caratterizzati solo da minori difficoltà digitali».

Grande o piccolo, ma pur sempre Bach. Non ha dubbi An­drea Bacchetti, genovese, pianista, già bambino prodigio, ora musicista completo ostinatamente in movimento. Al punto di volerli incidere, questi Preludi, Fughette, Inven­zioni e Sinfonie, dopo aver affrontato, dal vivo e su cd, perfino le vette delle Variazioni Goldberg. Riscendendo dal "Parnassum" a valle con le armi affilate del bachiano provetto.
Gian Paolo Minardi, nel commento che pubbli­chiamo a fianco, non manca di rilevare quelle connota­zioni estrose che rendono originale, non standardizzato, l'approccio di Bacchetti alla scrittura del Kantor. Tra pia­nismo d'altri tempi e nuove libertà insegnate dalla filologia.


«Gli autori del Settecento», dice Bacchetti, «io continuo a suonarli con strumenti moderni, perchè non ritengo di sapere suonare in modo adeguato lo strumento antico, quindi non mi sono impegnato a farlo. Lo studio della prassi "originale" è importante ma fino a un certo punto, il plastici­smo dell'articolazione non basta».

Il suo Bach a quali modelli pianistici si rifà?
«Ho cercato, prima di tutto, di disegnare una geografia e una storia degli interpreti bachiani del Novecento, per poi con­frontarmi. Le due strade principali hanno dei padri fondato­ri: la Tureck, da una parte, col suo tocco un po' meccanico; Fischer e Horszowski, figli di una cultura ancora romanti­ca. Negli anni 70 si risente tradizione "filologica", per esempio con Andras Schiff. Nel mio caso la presenza di fio­riture barocche, e la fantasia nel realizzarle, convivono con una timbrica e una sonorità tipicamente pianistiche».

Un Bach per la formazione, eseguito da un enfant prodige che è riuscito a diventare grande. Come si diventa professionisti?
«Prima per uscire dall'anonimato c'erano i concorsi, ora non è più così, quello che conta sono i contatti con le major e la possibilità di incidere dischi, senza sottovalutare una pe­sante, e onerosa, promozione discografica, perché ormai un buon disco e una normale promozione non bastano più».

Ma la presenza nel mercato di­scografico è sufficiente?
«Direi di no. lo ho inciso tanti dischi, gli ultimi, con Sony, sono distribuiti a livello mondiale e hanno raccolto otti­mi giudizi nelle riviste specializzate in­ternazionali. Eppure dal 1989 a oggi ho suonato solo tre volte all'Unione musi­cale di Torino, dodici volte alle Serate musicali di Milano, cinque volte alla Gog di Genova, una soltanto agli Amici della musica di Firenze, tre o quattro agli Amici della musica di Palermo. In venti anni. Ma i calendari di altri pia­nisti della mia generazione prevedonoanche 150 concerti l'anno».

Come se lo spiega?

«Le grandi agenzie internazionali, che possiedono le chiavi dell'ac­cesso alle stagioni concertistiche, pensano che la scuola pianisti­ca italiana non abbia una grande tradizione. Salvano solo qualche nome, che spingono all'interno di una strategia basata solo ed esclu­sivamente su artisti provenienti da altri paesi. Inoltre non c'è recipro­cità: ogni dieci pianisti che riesco­no a far scritturare in Italia, se ne riesce a piazzare uno solo all'este­ro, che il più delle volte si chiama Pollini».

Cosa propone?
«Il sistema Italia non va bene. Per­fino nel nostro paese il 90% dei piani­sti che suona regolarmente è stranie­ro, solo il 10% italiano. Bisognerebbe cambiare radicalmente, riscoprendo le nostre scuole, come avviene nell'opera. In Francia o in Germania valorizzano i loro musicisti, così come di recente anche in Giappone, che non ha nean­che una grande tradizione. I direttori artistici e le agenzie dovrebbero essere i primi a coinvolgere i nostri talenti, anche perché le associazioni benefi­ciano di contributi pubblici, pagati da cittadini italiani. Lo ha detto anche Uto Ughi».

Le istituzioni pubbliche hanno problemi di bilancio ben più vi­stosi che non quello delle quote nazionali. Nella sua Genova, per esempio, il Carlo Felice era fino a qualche settimana fa in gravi dif­ficoltà ...
«Sì, lo so. Proprio al Carlo Felice c'era tra l'altro un progetto: mettere insieme due genovesi, me e Fabio Luisi (diret­tore della Staatskapelle a Dresda, ndr). Vedremo se nonostante le difficoltà, scampato il pericolo, si riuscirà a rea­lizzarlo».

Ho letto di una sua collaborazio­ne con il ballerino Virgilio Sieni. Un'esperienza nuova; forse, an­che un po' insolita. Stimolante?
«La nostra collaborazione nasce dal­le Goldberg di Bach, che ho registra­to in dvd per l'Arthaus Music. Ma è un progetto che quasi preferirei non ricordare. Il maestro Sieni, artista indubbiamente di grande spessore, ha ballato su una mia esecuzione live delle Variazioni. Ma le interruzioni previste, stravolgevano il senso di questo "monumento". Il pianoforte rimaneva oscurato, quasi invisibile ed il pianista sacrificato. Così ho ri­chiesto un contesto più consono, per un'esecuzione di maggior respiro, anche dal punto di vista concertisti­co - nell'interesse dello spettacolo e senza togliere niente alla danza ov­viamente. Per tutta risposta mi sono visto cancellare alcuni concerti, per realizzare i quali avevo rinunciato ad altri impegni più prestigiosi. Per fortuna ci sono collaborazioni con artisti del calibro dei quartetti Ysa­ye, Prazak, della Scala che mi hanno dato e spero continueranno a darmi soddisfazioni di ben altro tipo».

Dopo Bach, oltre a Galuppi e Cherubini pianisticamen­te riscoperti in due recenti cd (Sony) a quali altri autori pensa di dedicarsi?
«Scarlatti, le Suite di Handel e Mo­zart, per il quale ho già qualche progetto in cantiere».

Solo Settecento?
«No, vorrei affrontare presto Mes­siaen e Ivan Fedele, che ha scritto composizioni molto difficili. Senza dimenticare Mendelssohn».



il profilo



Pianista Fantasista


di GIAN PAOLO MINARDI

La prima immagine musicale offertami da Andrea Bacchetti ri­sale al 1996 quando il non ancora ventenne pianista genovese vinse il "Premio Venezia", un concorso che dal ristretto circuito veneto ha assunto un ruolo primario entro l'intricato panorama delle competizioni pianistiche.
Si intravide già in quell'affermazione la pre­senza di una personalità estrosa, inquieta anche, nella ricerca di un profilo che lo stesso Bacchetti volle poi affidare, come un singo­lare autoritratto, a tre cd in cui aveva un po' riassunto la propria storia, la sua stessa irrequietezza creativa, quale parevano rivelare quelle divertite improvvisazioni sull'Aria delle Goldberg; senza tuttavia che questo turbasse più di tanto quel nucleo entro cui si era riconosciuto: "Un pianista 'classicista' secondo i modelli di Fischer, Backhaus, Horszowski, non eccessivamente virtuoso, sempre rivolto alla centralità della costruzione da un lato e all'essenzialità dell'ispirazione".
Tra questi modelli una presenza particolarmente incisiva, proprio nel senso della naturalezza del discorrere, è stata quella di Hors­zowski: il vecchio, severo Miecio, dietro l'apparente bonarietà, genovese anch'egli di adozione, ebbe modo di ascoltare il giovanissimo Bacchetti in un'esecuzione mo­zartiana per la quale espresse la propria soddisfazione.
Ma altre sollecitazioni avevano concorso: in particolare l'incontro con Be­rio, a Salisburgo nel 1989, con l'offerta al pianista dodicenne di eseguire i suoi pezzi pianistici; un rapporto di "formazione" nel sen­so più ampio, un termine di riferi­mento per affrontare il paesaggio così complesso e contraddittorio della modernità secondo una li­nea di coerenza.
Modernità che attraversa in realtà l'universo del nostro pianista senza invadenza, intrecciandosi con altri percorsi in cui la sollecitazione è venuta talora dalla rarità, come le Sonate di Galuppi o la primizia di quelle cherubiniane, vicende gravitanti attorno a quello che è andato consolidandosi come il momento più denso dell'impegno di Bacchetti, vale a dire quello bachiano.

Terreno oltremodo variegato com mostra la storia dell'interpretazione degli ultimi decenni, spesso gravata, specie per la trasposizione pianistica, da preoccupazioni stilistiche e filologiche a volte fin troppo castiganti.
Vincoli certamente ben noti a Bacchetti e tuttavia da lui filtrati nell'intendimento di assicurare al discorrere quella flessibilità suggerita dalla naturalezza dell'eloquio; tratti che si sono potuti ben cogliere nell'integrale delle Suite inglesi, da lui rivisitate senza forzature né trasgressioni ma come sospinto da una vitalità interna, sempre controllata dal gusto, tempi veloci quindi sempre scorrevoli, non frenetici così come queIli lenti mai troppo condizionati da eccessi di riflessività, così da assicurare, nel passaggio da una danza all'altra, una trama piacevolmente chiaroscurata, dove la stessa emancipazione dall'ipoteca clavicembalistica risulta sottratta a quel senso di stilizzazione aggraziata che spesso diventa maniera.
Atteggiamenti che si sono sostanziati nel più complesso cimento con le Variazioni Goldberg, fantasioso viaggio che Bacchetti ha intrapreso ardimentosamente quanto strenuamente concentrato in una sua visione, non c'è dubbio personalissima: nel ricreare i segnali e i caratteri offerti da ogni variazione, nello scegliere agogiche e dinamiche spesso lontane da quelle che il ricordo di tante esecuzioni ha sedimentato nella nostra memoria: con una propensione per i movimenti lenti che gli consentivano di esplorare entro il tessuto dando spazio luminoso a percorsi polifonici e di sostenere pure con coerenza poetica le difficoltà proprie della "lentezza", come ha mostrato esemplarmente, nelle diverse registrazioni audio e video, nel delibare il lunghissimo canto della venticinquesima variazione, in tal senso, la più temibile; ma pure di collocare ogni tappa del viaggio in una prospettiva conseguente segnata dal progressivo crescere di quella tensione con cui ha animato la scrittura vieppiù inventiva delle ultime variazioni, quasi furiosa nel toccare l'apice del Quodlibet, quasi a pregustare la pacificante, ineffabile riapparizione dell'Aria.

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