editoriale

iverse cose legano il nostro personaggio di copertina - il violoncellista e direttore abruzzese Luigi Piovano - al maestro pugliese Carlo Maria Giulini, di cui si celebra il 9 maggio il centenario della nascita: la formazione sullo strumento d'arco, l'amore per la musica da camera, l'esperienza fondamentale nell'Orchestra dell'Accademia di Santa Cecilia sotto la direzione di grandi bacchette. Ci sono però anche delle differenze marcate, che rispecchiano in parte le epoche diverse in cui questi due musicisti si sono trovati ad operare. Piovano, vivendo in un'era in cui la centralità culturale della musica classica viene messa in discussione, diversifica al massimo le sue attività (è primo violoncello a Santa Cecilia, solista, camerista e direttore impegnato con varie orchestre) e trae stimolo dalla necessità di gestire il proprio percorso artistico a un ritmo elevatissimo. Ciò che è riuscito a fare in questi anni è per alcuni aspetti straordinario.
Coloro che hanno avuto la fortuna di assistere ai suoi concerti in duo con Antonio Pappano non dimenticheranno presto l'esperienza. E diversi suoi dischi per Eloquentia - tra cui le Sei Suite bachiane per violoncello incise nel 2010 e il programma liederistico mahleriano realizzato con Sara Mingardo e i Musici Aurei nel 2012 - sono stati accolti giustamente con grande favore. La sua permanenza poi nell'Orchestra di Santa Cecilia (di cui dirige il complesso degli archi) è conferma ulteriore del livello superlativo raggiunto da questa compagine sotto la guida di Pappano.
Giulini invece ha avuto il privilegio di affermarsi come musicista in tempi di maggiore ottimismo culturale (anche se la qualità media delle orchestre italiane era inferiore a quella di oggi) e ha potuto lavorare, dagli anni settanta in poi, a un ritmo relativamente lento che lasciava ampio spazio alla riflessione, respingendo tutte le proposte non congeniali. Un comportamento che suscita anch'esso ammirazione e che non ha compromesso per fortuna i suoi rapporti con le case discografiche, che ora gli rendono generosamente omaggio.
La crisi di valori nel mondo dell'opera italiana è stata avvertita dall'ipersensibile Giulini già negli anni settanta (che segnarono infatti un momento di rottura nella tradizione melodrammatica), e ci domandiamo che cosa avrebbe pensato il maestro di un personaggio oggi potentissimo come Alexander Pereira oggetto della Polemica su questo numero. Quella crisi si rispecchia pure nelle difficoltà affrontate dal tenore Fulvio Oberto - che canta Der Zwerg di Zemlinsky a Lubecca questo mese - nei primi anni di carriera teatrale.
Il nostro è un paese che spesso non facilita lo sviluppo sereno dei suoi talenti migliori: lo può testimoniare anche il pianista Andrea Bacchetti, che tuttavia - grazie in questo caso al sostegno forte (anche in termini culturali) di Sony Italia - è riuscito ad affermarsi discograficamente a livello europeo, vincendo quest'anno un International Classical Music Award per il suo disco di sonate di Domenico Scarlatti. E al concerto di gala dei vincitori svoltosi nella Sala della Filarmonica di Varsavia il 12 aprile (il servizio fotografico si trova a pp. 24-25), la sua interpretazione bachiana - del Concerto in Sol minore BWV 1058, accompagnata dalla Sinfonia Iuventus diretta da José Maria Florencio - è stata il momento più magico di una serata che pur comprendeva prove eccelse del Signum Quartett e di Daniel Hope (in Schulhoff), di Charles Dutoit (mirabile per souplesse nel Carnaval Romain di Berlioz), di Krzysztof Penderecki (che ha diretto amorevolmente un proprio Adagio) e di Andreas Staier (che si è rivelato un intrigante schubertiano).
Una magia dovuta in parte alla qualità sublime della partitura in sé, ma anche alla musicalità assoluta con cui Bacchetti è riuscito a fondersi con le sonorità purissime dell'orchestra giovanile senza per questo lasciar sfuggire una sola sfumatura del proprio fraseggio, deliziosamente sorgivo.

Stephen Hastings